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Fasci siciliani: lu putiri ca ‘nforza li potenti è lu silenziu c’ ammazza l’innuccenti

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10 dicembre 1893, Giardinello, provincia di Palermo. Si era appena conclusa la messa domenicale, i fedeli in religioso silenzio si avviavano verso la piazza principale,  si fermavano davanti la casa municipale: “ Abbasso le tasse! Abbasso le guardie campestri!”. Angelo Caruso, l’allora sindaco reggente, si affacciò al balcone e mostrando un sorriso bonario consigliava calma e prudenza, ma sua moglie, che di calma e prudenza difettava, gettò sulla folla riunita un catino d’acqua. Il seguito dei fatti fu  dettato dalla rabbia repressa di quegli uomini riuniti che, abbattendo la porta del municipio e invadendone i locali, ne incendiavano mobili e registri. Poi, impugnando la bandiera e i quadri, che rappresentavano la famiglia reale, invasero le vie del paese. La tumultuosa ribellione ebbe breve durata. Un colpo di fucile, esploso dalla mano di un bersagliere, colpì a morte uno dei manifestanti. Fu l’inizio di una carneficina: 7 persone rimasero uccise, 19  ferite.

Questo episodio è una delle pagine più tristi della storia della nostra terra, quella domenica passo alla storia con il nome di “strage di Giardinello”, 7 persone morirono per  aver chiesto rispetto dei propri diritti. A trent’anni di distanza dall’unità di Italia, in Sicilia erano ancora presenti sistemi feudali, benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè proprietà private. La mancanza di una classe di piccoli e medi proprietari contribuì alla nascita di nuove figure di potere, i gabellotti, che prendendo in affitto le terre degli aristocratici siciliani (i quali le cedevano dietro pagamento di una gabella) rafforzarono e consolidarono la struttura agricola latifondista e sociale siciliana. Una struttura, controllata e gestita da organizzazioni mafiose, soprattutto nella Sicilia centro settentrionale. I gabellotti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini a un prezzo superiore della gabella, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per fare desistere i proprietari aristocratici da eventuali aumenti di affitto. Il gabellotto, diventato così latifondista, acquistava dalle monarchie borbonica e sabauda un titolo nobiliare, di solito quello di barone. Questa era la panoramica siciliana delle nostre campagne, nella quale la vita contadina era misera ,tragica, senza speranza: il mondo dei vinti, descritto dal Verga. Ma la Sicilia non si piega, non si arrende e dal torrido,  soffocante caldo delle campagne si alza un grido che vuole giustizia! Contadini, artigiani, intellettuali, ma anche uomini e donne di ogni età si riunirono in un movimento, chiamato Fasci siciliani dei lavoratori, con l’obiettivo di sconfiggere la rassegnazione, di sfidare la mafia dei gabellotti e il potere dello stato che affamava la povera gente. Era un sogno di giustizia e di  costruzione di una società migliore. Ma i fasci furono repressi dai mafiosi locali e dal governo nazionale. Il movimento siciliano chiedeva  l’abolizione delle gabelle e la redistribuzione delle terre. Ufficialmente furono fondati il primo maggio 1891 a Catania da Giuseppe Giuffrida. L’aver represso col sangue questo movimento  fu un grave errore politico, che ritardò il processo di modernizzazione della Sicilia. L’allora presidente del consiglio italiano, Francesco Crispi (nativo di Ribera) scelse di adottare la linea dura per ristabilire l’ordine nel territorio siciliano, nel quale i fasci, avevano sedi ovunque (eccetto Caltanissetta). Il  20 gennaio 1893 a Caltavuturo, 500 contadini vennero dispersi dai soldati e carabinieri armati e 13 uomini caddero vittime .

Il movimento fu sciolto nel 1894. Tra le vittime ci furono anche delle donne come Concetta Lombardo, Cira Russo, Anna Oliveri, Maria Spinella, uccise dalla polizia durante una manifestazione a Marineo contro  l’aumento dei dazi sulle farine. Sono da ricordare come testimonianza dell’attivismo femminile siciliano, meritano di essere ricordate come  esempio di coraggio.

“noi siamo gli araldi di un era di pace, che un alto pensiero d’amore guidò, o vecchia Sicilia risorgi pugnace, tremate o tiranni , che l’Etna tuonò!” così cantavano in quel lontano 10dicembre a Giardinello.

di Gregorio Davì

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