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IL CAPORALATO: PIAGA ANTICA, DRAMMA SEMPRE ATTUALE

ATTUALITA'

Il termine “caporalato” indica una forma illegale di sfruttamento del lavoro (maggiormente nel settore agricolo), che molto spesso va a braccetto con la criminalità organizzata, che l’alimenta e la sostiene. Infatti, il caporalato altro non è che una forma di reclutamento della manodopera, che si avvale di una specifica figura, chiamata “caporale”. Questi caporali, grazie alle proprie conoscenze, mediano tra offerta e domanda di lavoro in una determinata area geografica e in un determinato settore, nel senso che si occupano di selezionare, al posto dei datori di lavoro, la manodopera necessaria alle attività, scegliendo tra gli aspiranti lavoratori. Questo processo di selezione si svolge in maniera informale nell’ambito di un’economia in nero, in cui ai lavoratori non vengono riconosciute le adeguate protezioni sia in termini di sicurezza, sia dal punto di vista igienico-sanitario, di riposo o di compenso: mansioni e stipendi sono negoziati con i datori di lavoro direttamente dai caporali, il cui compenso consiste in una quota sottratta ai salari dei braccianti.

Questa selezione si concentra sulle fasce più deboli della forza lavoro: nei decenni passati era in particolare la manodopera femminile a trovare lavoro tramite i caporali, mentre a partire dagli anni ‘80 è aumentata sempre più la quota degli immigrati, provenienti in particolare, ma non solo, da Medio Oriente e Africa subsahariana.

Si potrebbe pensare che tutto il vantaggio del caporalato vada nelle mani dei datori di lavoro, che, grazie al lavoro in nero dei braccianti, riducono notevolmente i costi della manodopera.  In realtà, l’unica categoria che dalla situazione trae solo vantaggi è proprio quella dei caporali, che, grazie alle proprie reti di relazioni, diventano punto di riferimento imprescindibile tanto per i lavoratori quanto per i datori di lavoro, e riescono in tal modo a massimizzare i propri benefici individuali.

Un esempio illuminante di questo stato di cose è la situazione di Nardò, in provincia di Lecce. A Nardò i lavoratori stagionali ci vanno da almeno trent’anni per raccogliere le angurie. Di giorno lavorano per otto-dieci ore nei campi sotto il controllo dei caporali. Di notte, pure braccia da lavoro, vengono lasciati sotto gli alberi, in attesa di una nuova giornata di raccolta.

Ma nel 2011 accade qualcosa. La stagione è andata male per via delle angurie rimaste nei campi. Così il lavoro è stato scarso, i lavoratori impiegati sono stati pochi. E quei pochi impiegati hanno raccolto poco più che briciole. A fine luglio, quando la stagione dell’anguria era ormai compromessa, è iniziata quella del pomodoro. Le condizioni che regolano la raccolta del pomodoro sono ancora più infami di quelle che regolano la raccolta dell’anguria. I raccoglitori di oro rosso vengono pagati 3,50 euro a cassone, e non a ora.

Così i braccianti decisero di far iniziare la protesta con l’affissione di un cartello sulla porta di legno dei loro alloggi: chiedono contratti di lavoro veri, aumento della paga di lavoro, condizioni di lavoro migliori ecc…  Il blocco totale dei campi durò una settimana. All’inizio nessuno andava a lavorare, i pulmini dei caporali venivano respinti, anche se arrivavano nei pressi della masseria nel cuore della notte, molto prima dell’inizio della giornata lavorativa. Poi la fame e il timore che lo sciopero non portasse risultati immediati presero il sopravvento. Così, mentre le minacce di morte dei caporali contro i portavoce si facevano più frequenti, in molti   cominciarono a cedere e tornarono a lavorare nelle stesse condizioni di prima, a volte per paghe sensibilmente inferiori: 2,50 euro a cassone. Altri invece continuarono la protesta, pur non avendo più un solo euro in tasca. Grazie anche  al sostegno sindacale, ottennero che si cominciasse a parlare sul serio del problema e si prospettassero soluzioni. Da allora, qualcosa è cambiato, soprattutto nella coscienza del Paese, che ha dovuto aprire gli occhi su questa difficile realtà. L’istituzione del reato di caporalato è un risultato concreto di quella battaglia.

Lo sciopero di Nardò, quindi, costituisce un punto di svolta importante. Si è trattato infatti di una protesta matura, che ha avuto al centro della propria denuncia le condizioni di lavoro e di sfruttamento, i rapporti di forza nelle campagne, i modi della rappresentanza. Ma la strada è ancora lunga.

Un episodio più recente è avvenuto il 13 Luglio 2015, quando Paola Clemente, 49 anni, è morta di infarto ad Andria mentre lavorava all’acinellatura dell’uva. Viveva insieme con il marito e i  tre figli a San Giorgio Jonico. Una morte che ha acceso i riflettori sullo sfruttamento dei lavoratori nei campi e un anno dopo — il 18 ottobre del 2016 —ha portato all’approvazione della legge per il contrasto al caporalato e al lavoro nero in agricoltura. Inizierà il 12 febbraio 2021 il processo a carico di Luigi Terrone, titolare dell’azienda di ortofrutta di Corato per la quale lavorava Paola Clemente. In un primo momento il pubblico ministero Alessandro Pesce aveva ritenuto di non contestare a Terrone il reato di omicidio colposo, e a processo, con le accuse di truffa, intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro sono andate sei persone, tra referenti di un’agenzia interinale di Noicattaro e quelli dell’azienda che si occupava del trasporto delle braccianti dalla provincia di Taranto ai campi. Le indagini hanno poi attestato che la donna lavorava almeno otto ore al giorno, partendo di casa alle due di notte e tornando non prima delle quindici, per una paga di 27 euro. Solo in un secondo momento il Pubblico Ministero ha quindi ritenuto di chiedere il processo per il titolare dell’azienda di ortofrutta, contestandogli il reato di omicidio colposo e ottenendone il rinvio a giudizio. Terrone è accusato di aver violato il contratto di lavoro somministrato, che impone all’azienda utilizzatrice obblighi di informativa e addestramento nei confronti dei lavoratori addetti all’acinellatura dell’uva. L’ assunzione, peraltro, non era stata comunicata al medico competente; tutto ciò avrebbe comportato anche gravi ritardi nel chiamare i soccorsi e nell’adeguata assistenza medica di emergenza alla lavoratrice.

Abbiamo fatto riferimento al caso di Paola Clemente, ma tanti altri meriterebbero di essere menzionati. L’auspicio è che l’accresciuta attenzione mediatica su questi episodi porti ad una maggiore consapevolezza da parte dei cittadini, condizione fondamentale per il superamento di queste pratiche inaccettabili.

Margherita Violante

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